Fermata Lambrate: Italo Lupi. La storia del design nel distretto Ventura-Lambrate
Venerdì, 09 Giugno 2017
Il distretto Ventura-Lambrate è famoso per tante cose ma fra queste ne spicca una in particolare: l'amore, la cura e l'attenzione particolare per il design e per l'arte. Fra Design Week e l'appuntamento mensile con la Ventura Contemporary Art Night, il quartiere è sempre stato noto per la creatività e gli stimoli artistici che lo contraddistinguono. Questo mese abbiamo intervistato uno dei baluardi della creatività presente a Lambrate: Italo Lupi.
Grazie al tuo lavoro e alla fama che hai raggiunto, giri il mondo: Parigi, Londra, New York… c’è una parte di te che si sente più milanese e lambratese che cittadino del mondo?
Io mi sento molto milanese perché ho fatto il politecnico qua in anni belli e costruttivi. Avendo una certa età, ho avuto esperienze che fanno parte anche di una Milano molto differente: da una parte molto più chiusa e “reazionaria” ma anche la punta più avanzata dell’architettura europea. Basti pensare che in quegli anni a Milano venivano costruiti la Torre Velasca e la Pirelli quando in Europa non c’erano grattacieli, il museo del castello era uno dei più all’avanguardia e Gardella, Albini e Castiglioni facevano quello che facevano… devo dire che l’orgoglio di sentirsi milanese c’era. Poi ho frequentato il politecnico in un periodo in cui, come dicevo, era diventato molto reazionario perché molti dei professori più legati alla contemporaneità erano andati a Venezia e avevano fondato lo IUAV. Andando più a fondo su Lambrate, la amo e l’ho trovata subito come un “villaggione operaio” che ha mantenuto queste caratteristiche, senza alcuna situazione di degrado. Inoltre, da inguaribile ottimista, sostengo che le periferie milanesi, fatto salvo per alcune zone, sono perfettamente in linea con la media europea. Lambrate mi sembra proprio che sia una zona che ha mantenuto il ricordo delle città operaie di allora e che poi si sono gentrificate. Non così tanto però, perché si sono formati tanti altri insediamenti. Il mio primo rapporto con Lambrate l’ho avuto quando facevo il direttore e l’art director della rivista «Abitare», che allora aveva solo otto dipendenti: quando ci siamo trasferiti nella nuova sede ci siamo trovati di fronte a un intervento architettonico da fare invidia all’architettura olandese di allora. Devo dire che Lambrate rappresenta quasi un “piccolo ghetto favolistico”, senza alcuna accezione negativa nel termine “ghetto”, anzi: tutti noi a Lambrate facciamo un po’ tutti lo stesso mestiere e questo è bello, crea un bel clima.
Negli ultimi anni, Lambrate è soggetta a un forte cambiamento, non solo culturale ma anche architettonico ed estetico: come pensi si sia evoluto il quartiere, in positivo o in negativo?
Trovo che se questo cambiamento a cui è soggetto negli ultimi anni il quartiere continui a essere perpetrato da gente in gamba, con coscienza e capacità di rispettare ciò che gli sta intorno dovrebbe proseguire. Purtroppo a un certo punto, secondo me, sono venute meno quella forza e quella speranza con cui era nato questo nuovo slancio. È venuta a mancare la scuola di design che c’era, è andata via la redazione di «Abitare», adesso va via anche Radio 101… non c’è stato quello sviluppo che tutti immaginavamo e speravamo per il quartiere, salvo il periodo del Salone del Mobile. Si è perso un po’ l’impulso dei primi tempi, forse.
Il Lambrate-Ventura District è ritenuto un po’ una “fucina” di talenti e idee innovative, piena di stimoli e creatività nell’ambito dell’arte e del design. Pensi che ci sia una caratteristica distintiva, in questo senso, che porti Lambrate a spiccare fra gli altri quartieri di Milano? In questo senso qual è il tuo rapporto con la Design Week?
A Milano ci sono molte zone che sono belle come per esempio porta Genova, via Tortona, dove avevo il mio studio una volta… però qui a Lambrate c’è una compresenza di fenomeni e strati sociali diversi, più che in ogni altro luogo. Qui per esempio non c’è una fortissima presenza della moda. È bello che ci sia ancora la presenza di mestieri da artigiani, di bottega come il nostro che rappresentano la vera anima di questo quartiere.
La Design Week mi piace molto e la frequento sempre molto e con grande entusiasmo, soprattutto quando ero più giovane e in particolar modo quando lavoravo per «Abitare». L’unica cosa che non mi piace è il nome, “Design Week” e non perché non sia esterofilo o anglofilo, anzi. Ho un amore particolare per la grafica inglese, così come mia moglie adora quella cultura dato che insegnava all’Università lingua e letteratura inglese. Credo che la cosa che desse una forte identità all’evento fosse proprio il nome, “Salone del mobile di Milano” e chiamarlo “Design Week”, che è lo stesso modo in cui lo chiamano a Londra e a Vienna, per esempio, sia sbagliatissimo: spersonalizza, si perde la coscienza di quello che si è.
La tua scelta di aprire uno studio proprio in questo quartiere è dovuta a motivi logistici o di affetto che ti lega a questi luoghi?
Diciamo che il motivo logistico è stato la molla che mi ha spinto a migrare in questi luoghi con lo studio e che, in seguito, è stata coronata dall’amore per questo quartiere. Non avrei mai deciso di venire qui se non ci fosse stato il bisogno di essere vicino alla rivista per cui lavoravo e se non avessi trovato un posto abbordabile in termini economici. Come ti dicevo, sono arrivato a Lambrate nel 2005 per via di «Abitare». Quando ci siamo stabiliti con la redazione ricordo che abbiamo fatto una grande festa, in occasione della quale abbiamo fatto realizzato un laser verde, orizzontale, che arrivava fino in Ortica. Due chilometri e mezzo di laser. Ed è stato un evento davvero colossale, soprattutto contando che la rivista era molto popolare allora. In questa occasione avevo fatto degli inviti che avevano scritto in grande “hic sunt leones”, perché era proprio il terreno al di là del mare, al di là di tutto. Io avevo bisogno di un luogo dove trasferire il mio studio, in modo da poter trascorrere metà giornata lì e l’altra metà nella redazione della rivista. Era rimasto solo un ultimo immobile che non riuscivano a vendere a Lambrate. Evidentemente non c’era ancora stato chi aveva un briciolo di fantasia e creatività o, forse, un pizzico di ottimismo per scegliere quel posto!
Se potessi scegliere una famosa opera di design, tua o di altri grandi designer tuoi pari, quale potrebbe rappresentare Lambrate? E se non è ancora stata creata, cosa creeresti per dare corpo all’anima di questo quartiere?
Una domanda da un milione di dollari! Dei miei lavori non saprei, forse una delle ultime cose che ho fatto, alcune cose fatte per la Triennale sicuramente. Un’opera c’è ma non è dedicata proprio a Lambrate, diciamo più verso Città Studi ed è un disegno di Saul Steinberg, il più grande artista del ventesimo secolo, che non era un semplice illustratore ma un artista a tutto tondo. Penso in particolar modo ai suoi disegni che si riferiscono a Città Studi e ai vini che venivano coltivati lì in quel periodo. E poi tutta la serie di visioni di Steinberg su questa zona di Milano che sono fantastiche. Sì, sicuramente dedicherei tutte le opere di Steinberg a Lambrate.