Fermata Lambrate: la cueva artistica di Luigi Serafini
Venerdì, 07 Aprile 2017
Lambrate è famosa anche per essere una fucina d’arte, design e creatività espressa in tutte le sue forme. Ne sono testimoni la Design Week e tanti altri eventi come la Ventura Contemporary Art Night. Perciò chi meglio di un artista a tutto tondo come Luigi Serafini può incarnare lo spirito di questo quartiere e rappresentarne quasi un simbolo?
Nato a Roma, hai girato il mondo e hai aperto due studi, uno nella capitale e l’altro a Milano, proprio a Lambrate. Qual è la differenza maggiore che hai notato nell’approccio all’arte tra questi due territori, se ne hai notata una?
Sono arrivato a Milano nel ’77/’78, alla ricerca di un editore. All’epoca Roma e Milano erano fortemente interconnesse grazie a una sorta di alive poets’ society presente in ciascuno dei due centri e fra loro comunicanti. Quella poi era l’epoca della famosa “estate romana” nata con l’assessore Nicolini, che aveva incentivato e anche regolamentato l’arte in qualche modo. Poi il dopoguerra si è dimostrato fatale per Roma a causa del fascismo e delle conseguenze che il secondo conflitto mondiale si era trascinato dietro. Tante cose quindi si spostarono da Roma a Milano, come per esempio la televisione. L’Università a Roma si era frantumata. La capitale aveva subito quindi una battuta d’arresto, anche più di una. Milano invece era in continua crescita, in continuo divenire, era un vero e proprio crocicchio di incontri (basti pensare all’etimologia del nome, “Mediolanum”). L’idea della capitale, della centralità, cominciava a venire meno. Io ho assistito proprio alla fase discendente di Roma e alla continua e inesorabile ascesa e crescita di Milano, in questo senso e non solo. Le città alla fine sono come dei corpi, ed esattamente come un corpo una città va nutrita, curata e tenuta in buona salute. E l’assenza di una separazione fra Chiesa e Stato di certo non è stato un toccasana per Roma.
Perché hai scelto questo quartiere di Milano per aprire il tuo studio?
In realtà ci sono arrivato per caso e attraverso tutta una serie di coincidenze un po’ magiche. Prima ero in Buenos Aires e prima ancora in zona Settembrini. Quando mi sono reso conto di aver bisogno di un certo tipo di spazio più “importante” ho cominciato a mettere annunci ovunque ma non riuscivo a trovare uno spazio “poetico”. Poi mi è arrivato il contatto per questo spazio. Ero abbastanza sfiduciato però, una notte, mi sono svegliato guidato da una sorta di sensazione e ho guardato la posizione di questo spazio. All’inizio Maps mi aveva ingannato perché anziché Rimembranze mi risultava piazza Udine! Poi cercando meglio ho trovato immagini del parco Lambro, dove c’è stato il festival di Re Nudo, e raccogliendo ancora informazioni ho scoperto un legame tra Lambrate, Grifi, il filmmaker degli anni Settanta, e Giordano Falzoni, personaggio molto importante per la storia dell’arte contemporanea italiana: il primo aveva filmato il parco Lambro e il secondo, che era stato il trait d’union tra Parigi e l’Italia negli anni Sessanta/Settanta, mi è tornato in mente andando in viale Santa Marta. Qui infatti avevo trovato degli acquerelli in cui ho riconosciuto la mano del padre di Falzoni. Ecco lui, in qualche modo, è la figura che più mi ha legato a Lambrate, per lo meno in quel momento. E poi Il palazzo dove sono è stato quasi una folgorazione per me, perché mi ha ricordato subito Soho, a New York, dove ho abitato e questo grazie già soltanto a un elemento: il montacarichi!
Hai la possibilità di vivere il tessuto sociale di questo quartiere quanto vorresti per sentirti parte attiva e integrante? Quanto ti senti lambratese?
Penso che il termine “lambratese” sia una parola un po’ vuota ormai. È chiaro che è in corso un cambiamento, una gentrification inevitabile. È un po’ lo stesso fenomeno a cui ho assistito quando vivevo a New York. Qui sta succedendo la stessa cosa, specialmente con l’apertura delle gallerie, con la presenza degli artisti. Ancora di più poi con il fenomeno di Ventura-Lambrate, legato al design e all’arte. E credo che questo possa sicuramente essere un punto a favore per il quartiere.
Come hai detto tu stesso, negli ultimi tempi Lambrate è soggetta a un drastico processo di cambiamento e di riqualificazione rispetto al passato. Questo è sicuramente un bene perché ha permesso di rivalorizzare un territorio che prima era abbandonato a se stesso. Tu cosa ne pensi? Ritieni che questa svolta possa rappresentare un punto a favore del quartiere o che possa comportare anche dei lati negativi? Se sì, quali?
Questi sono meccanismi complessi e io ho visto come ha funzionato in America, dove poi tutto ha una velocità e una forza a cui è molto difficile stare dietro. Penso che tutte le costruzioni che sono state rimesse a posto come la ex Faema o il Luna-Pac siano dei piccoli gesti molto positivi, dei segnali del cambiamento che è in corso. Poi ci riserviamo la speranza che possa continuare sempre su questa scia… e la speranza è sempre l’ultima a morire, si sa! Si potrebbe dire che il Luna-Pac sia un po’ un auspicio, un luogo quasi magico. Ricorda il Luna Park, un luogo di giochi, una “città” dove giocare e mangiare, assolutamente incantata. Spero che luoghi come questo possano essere dei veri e propri fari, delle guide per il quartiere.
In un’intervista a «Pressreader» del 21 agosto 2015, hai definito Lambrate “quasi un village com’era New York negli anni Settanta, con le trattorie, la fabbrica abbandonata dell’Innocenti e il parco Lambro con i ricordi del festival di Re Nudo”. Come vedi il Ventura-Lambrate District, distretto del design e dell’arte, da qui a dieci anni? Hai paura che questa atmosfera possa cambiare e andare persa per sempre o conservarsi, migliorare e imporre sempre più la propria identità?
Credo che la memoria in questo senso sia molto importante. Ed è anche un meccanismo complesso. Di sicuro qui la memoria è celebrata, basti pensare alla piazza che si chiama “Rimembranze di Lambrate”, dove ci sono i nomi dei soldati che hanno dato la vita durante la guerra. È un vero e proprio monumento alla memoria. Quindi partendo dalla memoria, ci potrebbe essere una presa di coscienza sempre più forte. E ho visto che comincia già a essere esercitata attraverso tanti libri su Lambrate che continuano a essere pubblicati. Un’altra iniziativa importante in questo senso sarebbe la bonifica del fiume Lambro, che sarebbe un perfetto fiore all’occhiello di un’area verde meravigliosa. Se il Lambro tornasse a essere pulito rappresenterebbe un salto di qualità netto per tutto il quartiere, dato il suo “disegno”, la sua architettura naturale che è splendida. Anche a volerla costruire un’opera del genere non si riuscirebbe a farlo. Se venisse bonificato sarebbe bello tornare a sentire i suoni della natura come il gracidio delle rane.
Per certi versi Lambrate può essere definita un po’ una frontiera all’interno di Milano per via della sua posizione e della sua graduale ma inesorabile rivalorizzazione. Considerata l’installazione dell’altalena che hai realizzato in Svizzera, sempre in una zona di frontiera, ti piacerebbe creare un’opera anche per la nostra piccola “endofrontiera” milanese? Se sì, che soggetto svilupperesti?
Questa è un’ottima domanda, ci dovrei dormire su! Non so, non ci ho mai pensato. Di sicuro un simbolo assolutamente straordinario di questo quartiere è la rotonda di Rimembranze, che è anche attraversata dal tram, il cui percorso è un otto, il simbolo dell’infinito. E poi la presenza così forte della memoria e anche dei rom, che hanno un’idea del tempo circolare. È un posto pieno di simboli ma, fra tutti, sicuramente sarebbe il cerchio quello più potente da sviluppare. Chissà, potrebbe anche essere un’idea per potenziare e migliorare ancora di più le luci d’artista!
E in ultimo parliamo del tuo capolavoro, il volume che si è guadagnato l’ammirazione di Fellini, Barthes e Calvino: il Codex Serafinianus, concepito nel 1981, un lavoro sicuramente più unico che raro. Hai dato vita a quest’opera a Roma ma quanto c’è di questo quartiere di Milano, se c’è qualcosa, all’interno del Codex?
Un qualche legame con questo quartiere ce l’ha: quando ho cominciato a esplorare Lambrate la prima cosa che ho cominciato a visitare sono stati i bar, ovviamente! Io e una mia amica grafica ormai in pensione entrammo a prendere un caffè in un bar e a un certo punto sentimmo il proprietario che parlava delle Grafiche Milani, dove aveva lavorato questa mia amica. Ed era proprio lì che era stato stampato il Codex, a fine anni Settanta! Però oltre questo legame, per ovvi motivi, non ce ne sono altri. Quando sono arrivato a Milano mi sconsigliarono tutti di buttarmi sull’editoria, perché il mio era un libro che non si leggeva e mi suggerirono di fare una mostra ma io volevo entrare proprio nella rete editoriale. Soprattutto perché quella degli anni Settanta era la generazione dei babyboomer del secondo dopoguerra, cresciuta con l’idea di rimarginare la ferita della comunicazione interrotta e impedita dei loro padri. Inoltre era la generazione della pubblicità e dell’esplosione della comunicazione. Per tutti questi motivi ho voluto creare un’opera editoriale che parlasse di codici e di comunicazione.